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25
Nov
2024

REPORT CAPPADOCIA – 14/22 SETTEMBRE 2024

Immagini dalla Cappadocia

Il risveglio è lo spigolo di metallo delle tre poltroncine sull’ultima lombare o la sacrale della colonna vertebrale. Quella sonora, invece, è una voce insolitamente suadente del sistema di amplificazione. Incomprensibile. Poi, però, parla in inglese. Metto a fuoco l’orologio: sono le 3:17 e sono passati soltanto venti minuti. Si fanno più distinte anche le poltroncine dove, senza soluzione di continuità fra burqua e grandi scialli colorati, altri passeggeri in attesa di un volo sembrano dormire i sonni e i sogni più tranquilli. Ah, sì, siamo a Istanbul – εἰς τὴν Πόλιν, “verso la città”. Tanto vale tirarsi su e dirigersi sbadigliando “verso un caffè”. Lunghissimo, scotta tanto che non si riesce a tenere in mano, e – ce lo si doveva aspettare – ustiona il palato. €5. La Lonely Planet diceva 70-80 centesimi… Dai, magari si riesce a dormicchiare sul volo per Nevşehir.

 

Arrivati a Göreme verso le 9 del mattino, il programma prevede un power nap (o volgarmente pennica) prima di partire a spron battuto per il Museo all’aperto di Göreme: una ventina fra chiesette, cappelle e monasteri scavati nel tufo con affreschi del X e XI secolo. Carichi di bagagli, passiamo sotto il portico dell’albergo, attraversiamo il cortiletto interno, saliamo le scale, superiamo un terrazzo, un’altra rampa e ancora alcuni gradini e finalmente siamo sul tetto piatto dell’albergo dove si trova la reception del Cappadocia Cave Rooms. Le camere saranno pronte verso le 13. Altro che pennica! Ci danno una stanza al piano terra dove accatastare borse e zaini e, grazie all’indiscussa capacità dei capigruppo di variare prontamente il programma a seconda delle evenienze, si parte per un emozionante giro esplorativo della cittadina: una monotona teoria di bar, ristoranti, negozi di souvenir e tappeti e agenzie di viaggi che si affacciano su strade dove sfrecciano, per poi subito posteggiare davanti a te sul marciapiede, pulmini che scarrozzano greggi di cinesi, giapponesi o coreani, Chevrolet Impala Convertible rosa o viola e modelli di Fiat mai visti in Italia.

 

Com’è che siamo finiti qua in alto in questo vigneto con una fantastica vista, mentre tutti gli altri turisti si trovano là, centocinquanta metri più in basso, al Museo all’aperto di Göreme? Eppure la traccia Gps dice di scendere di qui, sì per questo dirupo, dove hanno tagliato in due la collina per far passare uno stradone nuovo di zecca con un manto d’asfalto nerissimo che ancora sente di catrame. L’avevano detto che la Sakli Kilise (Chiesa Nascosta) non era facile da trovare… Assaporando qualche acino di un dolcissimo grappolo d’uva rimasto dopo la vendemmia, scivoliamo prudentemente nella sabbia mista a brecciolino del dirupo verso il tanto aborrito asfalto.

 

Ripassiamo un po’ di Antico e Nuovo Testamento e di agiografia dei santi, passando da una chiesa all’altra scavata nel tufo, esplorando absidi e navate, affacciandoci a qualche finestra che all’esterno si apre a picco su una parete, abbassando la testa per accedere a un locale ipogeo o “invocando” qualche santo, se ce ne siamo scordati. Sulle pareti gli affreschi di episodi biblici che ci rimandano al catechismo appreso, magari controvoglia, alcuni decenni fa. I volti di Gesù, della Madonna, degli apostoli e dei santi spesso sono stati sfigurati, forse al tempo delle Crociate, con uno scalpello per strappargli via gli occhi. San Giorgio, aiutato da San Teodoro, è ancora lì che se la sta vedendo con il drago, che non vuole saperne di morire. Sant’Onofrio gironzola mezzo nudo nel deserto mangiucchiando datteri. E l’imperatore romano Costantino, saggiamente consigliato da sua madre Sant’Elena, sta seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi di smetterla di perseguitare i cristiani: forse è la mossa politica più avveduta, visti i like che la loro religione sta avendo nel 313 d.C.

 

Oggi il trek prevede la Valle dell’Amore. Già da prima di partire girava la voce che avremmo ammirato qualcosa di particolare, di mai visto. Formazioni geologiche uniche, create dalla duplice azione dell’erosione del vento e della pioggia. E le metafore si sprecano: “camini delle fate”, funghi di roccia, campanili naturali di basalto e di tufo, dove, a questo materiale leggero e poroso costituito da ceneri vulcaniche che si sono sedimentate e che ne costituiscono la colonna – l’asta – si sovrappone un “cappello” – “cappelle” erano quelle del giorno prima – di basalto, roccia anch’essa vulcanica, ma molto più dura. Potenza dell’erosione differenziale! Sì, forse il discorso è un po’ tecnico. Fallo capire ai non addetti ai lavori! Eppure c’era qualcosa di familiare in quei pilastri di roccia… Il trek si inoltra poi fra le curve candide e sinuose della Valle Bianca. Anche quelle rocce arrotondate e levigate – come negarlo? – hanno un forte potere evocativo e in quell’Eden fuori dal tempo un labirinto di passaggi ci fa sbucare in radure dove dai meli cogliamo ingenuamente frutti che, qui, non dovrebbero essere proibiti. Più in alto, l’imponente rocca-castello di Uçhisar, un termitaio di tunnel e grotte che un tempo ospitava un intero villaggio, ci attende, guardandoci paziente da lontano.

 

La Cappadocia è anche terra di insediamenti sotterranei. Derinkuyu è una città ipogea che risale alla fine dell’epoca ittita (1200 a.C.), ma che fu abbandonata soltanto nel 1923, e poteva ospitare per alcuni mesi fino a 20.000 persone. Una rete di cunicoli e di scale ripide e anguste scavata nel tufo dà accesso a sette livelli, fino a una profondità di 55 m., scendendo dalle stalle, alla scuola, alle abitazioni, alle armerie, alla sala riunioni, fino a una chiesa a croce latina con un confessionale. I pozzi profondi garantivano le scorte d’acqua, i tunnel verticali consentivano l’areazione, mentre enormi porte circolari a forma di macina, praticamente inespugnabili, potevano scorrere per occludere i cunicoli in caso di pericolo. Per più di tremila anni gli ittiti in fuga dai traci, i primi cristiani in fuga dalle persecuzioni dei pagani, i cristiani iconoduli in fuga dai cristiani iconoclasti, i greci cappadoci in fuga dalle invasioni di musulmani, mongoli e ottomani e, ancora nel 1909, i cristiani armeni in fuga dai turchi si sono succeduti nel chiedere all’oscurità di Derinkuyu (“il pozzo profondo”) di offrire loro rifugio mentre erano in fuga dal cuore di tenebra dell’essere “umano”.

 

Tornati “a riveder le stelle”, facciamo una sosta alla Devrent Valley, una fantasiosa concentrazione di formazioni geologiche che sembrano essersi messe in posa in attesa di un servizio fotografico: un cammello con tanto di sella, uno squalo che mezzo emerge dal mare di roccia, una regina o  principessa dall’esile collo alla Modigliani con un abito lunghissimo sotto il quale sembra nascondere dei trampoli, un orso con la schiena a terra e le quattro zampe dritte verso il cielo e due teste arrotondate con il collo che spunta da un roccione che si guardano, allungando le labbra l’una verso l’altra in un bacio eterno di pietra.

 

Beh, siamo pur sempre il CAI, dunque una vetta ci sta. E allora vada per l’Hasan Daği, un vulcano spento di 3268 m. le cui eruzioni di trenta milioni di anni fa hanno ricoperto la Cappadocia di cenere vulcanica, compressa e sedimentata nel corso dei millenni e diventata tufo. Partenza quando è ancora buio. Dopo due ore di viaggio con il cono vulcanico lì di fronte a noi, gli autisti – improvvisati? – dei due pulmini stanno ancora cercando la strada per portarci al Karbeyaz Otel (a 1950 m.), dove ci prefiguriamo una bella colazione, visto che abbiamo dovuto rinunciare al ricco buffet del nostro albergo. Mai fidarsi ciecamente di Internet. L’edificio è definitivamente chiuso e trasandato, come conferma anche uno skilift dismesso e arrugginito lì a fianco. Rassegnati, ci avviamo risalendo, fra due pareti di detriti, un canalone che ci permette di restare all’ombra. Il paesaggio è brullo: qualche ciuffo d’erba spinoso e poi salendo sfasciume, pietrisco e ghiaioni; più in altro, verso la vetta affiora nero il basalto. Seguiamo un traccia in parte sul terreno e in parte sul Gps. Arriviamo sull’orlo del cratere e in meno di quattro ore siamo in cima dove, accanto alla bandierina turca, ci attende – puntuale – la nebbia. Si dirada per un attimo, solo per farci intravedere, sempre sul bordo del cratere un punto che sembra più alto, come conferma anche la tecnologia di cui disponiamo. La cima ufficiale è questa, ma anche là spunta una bandierina. Come l’anno scorso a Creta sul Gingilos. Qualcuno non vuol rinunciare e perde cento metri di quota per poi risalire all’altra vetta. Altri, infreddoliti, si avviano verso il Karbeyaz Otel, ostinatamente chiuso. Saliti sui pulmini, alcuni si appisolano sognando la birra al bar dell’angolo a Göreme.

 

Si sente bussare con insistenza dentro al buio profondo in cui è immersa l’ampia grotta – ovviamente senza finestre – scavata nella pietra, chiamata camera 3, dove dormiamo comodamente in cinque. Sono appena le 6 del mattino. Le mongolfiere! Le mongolfiere! Dai, su, venite a vedere che spettacolo! Saliti sul tetto terrazzato dell’albergo, possiamo soltanto restare a bocca aperta con il naso all’insù. Un cielo ancora pallido è popolato da una miriade multicolore di palloni aerostatici che fluttuano delicatamente sopra le nostre teste in un volo silenzioso, interrotto soltanto dal rado crepitio del bruciatore. I primi colori del sole cominciano a riflettersi sul tufo, ravvivando un paesaggio incantato fatto di canyon e camini di fate. Sorvolando eleganti sopra antiche chiese rupestri e villaggi che cominciano a svegliarsi uscendo dalle rocce in cui hanno trascorso la notte, le mongolfiere ci invitano tacitamente alla pura contemplazione, serenamente immersi nella straordinaria bellezza della Cappadocia.

 

Si rischierebbe di intasare la memoria soffermandosi più a lungo su tanti altri scatti di questo viaggio. Noi seduti fra tappeti e cuscini o con i piedi a mollo nel torrente sulle palafitte nella Valle di Ihlara, con anatre e oche che si lasciano scivolare sul corso d’acqua, per poi risalire controcorrente e ridiscendere ancora. Il vecchietto della Valle Rossa che sbuca sul sentiero da dietro le rocce con la sua costruzione fatiscente di tavoli, panche e tettoie, che offre fascicoli divulgativi gratuiti sull’Islam e vende spremute di melograno, coloratissima frutta secca candita e semi di pesche e albicocche, sciacquando i bicchieri in un catino dove al massimo cambierà l’acqua una volta alla settimana. E poi Istanbul, non l’aeroporto, ma la metropoli e la sua storia: il Bosforo, i palazzi, le moschee, la cisterna, gli empori, i colori, gli odori, le lingue, le etnie… e anche un venditore ambulante che ci viene incontro portando orgogliosamente sulle spalle un trespolo su cui ha disposto i simit – ciambelle di sesamo dolci e salate simili a bretzel – e che ci offre a 15 lire turche, due a 25 (adesso sì, €0.70). Ma, davvero, qui non basterebbe un libro…

 

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